- Prefazione
- Introduzione di Damiano Bova
- Cenni biografici di Damiano Bova
- Prefazione dell'Autore Francesco Bova
- Indice
Vecchia Madia
di Francesco Bova (a cura di P. Damiano Bova OP)
Prefazione
È una testimonianza, la mia, che scaturisce dalla pervicace volontà di padre Damiano Bova di coinvolgermi in questo suo xenion a mio suocero: un commovente dono votivo allo scomparso, che gli era stato zio affettuoso e che egli ha voluto ricordare e celebrare con questo suo paziente e meritorio atto d'amore. In limine, devo affermare che questa raccolta postuma ha rappresentato una sorpresa anche per me. Non avevo avuto dal suocero-poeta alcuna notizia di un progetto ad essa relativo e tantomeno di una sua avanzata elaborazione.
Sebbene in quegli anni mi interessassi di poesia italiana del Novecento, non c'è mai stato tra di noi, nella consuetudine quotidiana e nell'affetto che reciprocamente ci legava, un dialogo sulla sua poesia: soprattutto per colpa mia, perduto dietro il duro impegno della carriera accademica; ed in parte per la innata attitudine di mio suocero a chiudersi a sua volta in un cerchio di riservato pudore, nel mondo che sentiva più suo e che custodiva in modo geloso e umbratile.
La poesia era per lui una consolazione quotidiana, un rifugio, un diario in versi declinato nel microcosmo e nella microstoria; ed ha prodotto, attraverso questo esercizio au jour le jour, una mole considerevole di testi poetici, spesso in modo estemporaneo, che accompagnavano i piccoli grandi eventi della famiglia, del mondo scolastico, delle memorie della vita paesana. Ma era una sorta di vizio segreto, salvo quando non si era in presenza di testi indirizzati al cerchio caldo degli affetti domestici: ricordo, a questo proposito, quelli assai intensi, dedicati ad una nipotina, l'unica di cui aveva avuto la possibilità di spiarne quotidianamente il primissimo ciclo vitale, scoprendosi integralmente e gioiosamente nonno.
Francesco Bova era un uomo segreto, riservato nell'apparente estroversione, nella solare eppure appartata bonomia che gli derivava da un carattere affabile e dalla quarantennale frequentazione dei bambini; sicché persino i figli non erano molto a conoscenza di quanto vergava con facilità sui fogli dei suoi quaderni.
ln vita aveva pubblicato appena due raccolte, ma la sua produzione di versi aveva avuto inizio fin dagli anni giovanili, apparendo solo episodicamente e sparsamente in giornali e riviste. La prima, Attimi poetici d'un maestro (1968), ebbe successo nel mondo scolastico (andarono esaurite almeno tre edizioni): Bova cantava con freschezza di vibrazioni un mondo per molti aspetti pascoliano di fatti e ligure, gesti e valori; un mondo che egli ritraeva in ritmi cantabili, sintonizzandosi con originale prensilità sulla lunghezza d'onda del mondo fanciullesco. Aveva in quell'occasione preannunziato un volumetto dal titolo Didattica gioiosa, d'impianto innovativo nel divulgare in versi regolette grammaticali e matematiche: un proposito che non giunse alla realizzazione perché la vita gli stava approntando una prova terribile. La moglie, Anna Petraroli, scoprì di essere ammalata di cancro; e per anni Bova si è dedicato integralmente a lei, prima illudendosi, poi spiandone con dignità e dolore- tanto più lancinante quanto più si sentiva prigioniero di una fatalità insoffribile - il progresso inarrestabile della malattia. E quando il dramma giunse al suo compimento, la vena poetica tornò a visi tarlo: come memoria di colei che continuava ad essere viva, come e più di prima; e come esorcizzazione di un dolore, di un vuoto immedicabile, di un'assenza fisica accettata cristianamente senza ribellione, pur senza poter accettare la sentenza del destino. Da quell'abisso - che percorse con coraggio e disperazione - scaturirono i versi più belli che avesse mai scritto, quelli di Canto d'amore ( 1975): i cascami della tradizione letteraria, indubbiamente presenti e vivi nella sua poesia, venivano bruciati dall'impossibilità di adagiarsi nei moduli consueti, dalla necessità di trovare parole e ritmi nuovi per esprimere l'esperienza devastante del dolore, che aveva infranto drammaticamente il suo piccolo mondo.
Poi il tempo, la volontà resistenziale di non arrendersi all'umana solitudine, l'incapacità di soffrirla come una condanna senza redenzione, un nuovo affetto, il respiro caldo dei figli, l'avevano strappato alla depressione; e questo ritrovato amor vitae sembrava averlo in parte allontanato dalla pratica della poesia. Oggi sappiamo che così non era; e che aveva affidato un piccolo testamento poetico al suo interlocutore più fedele, al nipote a lui più consentaneo, padre Damiano. Francesco Bova quando ha pensato questa nuova e sorprendente raccolta, che riemerge dal dilagare del tempo? Probabilmente nella città della sua ultima dimora, Reggio, tra la fine degli anni Settanta e gli inizi del decennio successivo, quasi in limine mortis.
Appena sei sono le poesie datate, tra il '71 e il '75: risalenti, dunque, alla fase romana (la moglie era scomparsa nel '73). Alcune di esse risalgono ad anni (e a decenni) anteriori: tutte sono state riprese alla luce di un disegno organico, di una unità d'ispirazione che si era espressa ad intermittenza nel tempo e che l'autore percepiva, giustamente, connaturata sia ai testi in vernacolo che in lingua letteraria.
E' indubbio che l'asse strutturale di Vecchia madia, secondo il titolo con cui padre Damiano Bova ha voluto siglare la raccolta, graviti sulla scelta espressiva del dialetto. La motivazione è stata chiarita dall'autore stesso nelle poche parole che aveva vergato in chiave prefatoria: Francesco Bova si è sentito - sempre - un emigrante, omologo e diverso rispetto a coloro che cambiavano nazione e continente per conquistare una nuova condizione di vita; e questo sentimento si era acuito soprattutto quando aveva abbandonato la Calabria per poter continuare a vivere con i figli, a Roma. Ma il sentimento dello sradicamento era stato fortissimo; e l'aveva spinto a ritrovare, attraverso la poesia, un colloquio da lontano "con cose, fatti, gente" del suo paese, con quella quiddità ancestrale che portava inseparabilmente impressa in sé, come le stigmate, dovunque andasse. "Ci sono dei giorni –scriveva - in cui nell'anima sento bruciare più che mai questo qualcosa che mi inebria di ricordi, che mi fa ritornare indietro, a ritroso, sino all'estremo orizzonte dei miei primissimi anni". Per riappropriarsi di quest'esistenza e di questo tempo sommersi, Bova racconta attraverso una ripresa - stilizzatamente lavorata nei suoi esiti espressivi- del dialetto natio. Nulla, comunque, che possa ricordare entusiasmi per la fonografia linguistica: essa s'inscrive, in sintonia con le radici del poeta, nel solco della grande tradizione dialettale, ricercando una coerente angolazione linguistica per l'io poetico, il quale ritrova naturalmente - sul filo di ragno del viaggio nel tempo -cadenze movimenti ed elementi della propria lingua materna; ma, risillabandoli, li diversifica con scarto creativo dai dati primigeni, per effetto del suo essere ormai irrimediabilmente diverso rispetto a quel tempo ed a quel mondo.
Solo la risillabazione del dialetto primigenio poteva assecondare compiutamente il movimento regressivo, consolante, conoscitivo, riappropriativo della memoria; e per questa via essa può divenire talvolta lirica di respiro anche corale, fermando con voce sicura linee colori e frammenti di una piccola comunità patriarcale della Calabria di un tempo. Ed è al tempo stesso poesia del chiudersi di una stagione epocale: ritratta senza indulgenze per nuances di lirismo elegiaco (si vedano i colori amari del vero in A viti), con un accorto equilibrio fra il pulsare estremo di un tempo senza tempo e l'assedio sempre più pressante del reale. Attraverso lo strumento ed il filtro della memoria l'io poetico, ormai adulto, ripercorre l'itinerario fra due poli che restano fasciati d'ombra: la favola breve dell'inconsapevolezza fanciullesca e la prosa quotidiana della vita matura. E dell'accumulo di fatti ed eventi e figure, lo sguardo della memoria coglie selettivamente solo quelli nei quali riconosce, ora, le stazioni elementari ed eterne del vivere, intessendo una sorta di viaggio coscienziale à rebours.
Ha detto Alvaro che chi si trova a vivere la sommersione di un mondo non deve pianger! o, ma solo trame memorie: per impedire che si franga il filo vitale con ciò che siamo stati; poiché, quando ciò è avvenuto, la pianta uomo ha acquistato caratteri ooorifici, tramutandosi in qualcosa di diverso e di mostruoso. Credo che l'urgenza della memoria- e del ri-vivere quel mondo attraverso la poesia in dialetto -- si sia fatta cogente quando più forte si è fatto lo scontento del tempo in cui si è trovato a vivere; quando il malessere quotidiano che non abbiamo finito di attraversare ha generato per antitesi, per contrapposizione vitale, l'accarezzamento di un microcosmo chiuso e compatto nel suo respiro profondamente umano, nel senso profondo della sua identità collettiva. Ed il recupero della lingua primigenia ha sconfitto nuovamente - per una strada diversa - l'attardata cognizione della tecnica poetica: la forza della poesia alita dentro questi versi, compie una palingenesi espressiva, inscrive Bova tra i frequentatori non dilettanteschi della poesia dialettale.
Non si percepisce una cesura separante tra i testi in lingua materna e quelli in lingua letteraria; e non solo per la consustanzialità del mondo poetico, e delle figure genitoriali che improntano l'una e l'altra sezione, stagliandosi sulle altre nella loro dimensione archetipica. Vi è un'ulteriore linea vettoriale ad unificarle: l'ombra di morte che le percorre, le pervade, le impronta. Il mondo primigenio è riassaporato, riposseduto, dall'angolazione prospettica di un io poetico che sente il passo sempre più vicino- e non esorcizzato- della mo1te; né può inficiare questa chiave di lettura il fatto che molti testi siano stati scritti in epoca anteriore, poiché al contrario essa acquista una persuasività ancora maggiore dalla constatazione che, tra le moltissime poesie scritte, egli abbia trascelto proprio quelle in cui più forte si avvertiva il presentimento dell'evento ultimo.
Ha fatto parte del suo segreto- come appare probabile- l'aver voluto tacere ai propri cari il progredire della malattia cardiaca, vivendo in altruistica solitudine coscienziale l'attesa del colpo demolitore? Quando il cataclisma improvviso (ma forse non per lui) è avvenuto, ero lontano, per lavoro, dal resto della sua famiglia, tutta raccolta attorno al padre nel consueto momento delle vacanze estive; e solo ora, leggendo questa raccolta postuma, ho piena coscienza di avergli inflitto una deprivazione di compiutezza d'amore, non partecipando ai raduni 'oceanici' che, insieme con padre Damiano, organizzava alla Ferdinandea e che vengono rievocati in uno dei testi più intensi e doloranti dell'Appendice. Una notte d'agosto è partito verso i confini inesplorati di quel paese dal quale -era Amleto a dirlo – nessun viaggiatore ritorna. Ed invece, nel suo caso, in qualche modo, si può ritornare: a vent'anni, quasi, dalla scomparsa. Con la voce segreta che era più sua.
ALDO MARIA MORACE
(Univ. di Sassari)
Vecchia Madia
di Francesco Bova (a cura di P. Damiano Bova OP)
Introduzione di Damiano Bova
Da molto tempo mi sono dedicato a raccogliere le poesie di Francesco Bova, mio zio materno, e non paterno, come farebbe supporre lo stesso cognome, uguale a quello di mio padre. Avevo in mente di pubblicare una selettiva raccolta in cinque capitoli (Gente di casa mia - Il mio paese - La mia scuola - Cittadino del mondo - Varie) da cui doveva trasparire il suo emisfero affettivo, culturale, sociale, la sua visione della realtà.
Ho avuto poi tra le mani una cassetta contenente una raccolta di poesie in lingua vernacola e in lingua letteraria incisa dallo stesso Autore, con una sua presentazione. Il progetto s'è semplificato. Giungeva provvidenziale una selezione di poesie fatta dallo stesso Autore e con un intento ben preciso, come si potrà leggere nella sua prefazione. La scelta e l'ordine li aveva stabiliti lui. A me non spettava che rispettare questa sua scelta. Nella sua discrezione, senza dirlo, mi ha voluto, forse suggerire, quel che avrei dovuto fare: pubblicare queste poesie che lo riportavano alle radici della propria esistenza. Dalla raccolta, che ritengo completa, fatta da me di tutte le sue poesie, ho spulciato quelle indicate nella cassetta. Di quelle in lingua vernacola ho fatto la traduzione in lingua italiana.
Per ogni poesia ho fatto un breve commento, sia per dare delle indicazioni che ne favoriscono la lettura, sia per qualche riflessione personale, ispirato dalla mia conoscenza del contesto socio-culturale del soggetto poetico.
Ho ritenuto utile riprodurre in CDRom la cassetta, per offrire la possibilità di ascoltare la lettura delle poesie dalla viva voce dell'Autore, non solo per coglierne l'espressività, ma soprattutto il patos personale, che tanta parte ha nel suo dialogo con persone e cose del suo mondo.
È una raccolta di poesie la maggior parte già edite, fuse in un armonico canto d'amore per la terra natia. L'Autore presenta, in lingua vernacola e in lingua letteraria, quello che potrebbe essere inteso come il suo mondo: ambienti, persone, cose e avvenimenti della sua prima età, della sua famiglia, del suo paese natio, della sua scuola, rivissuti esteticamente con la sua sensibilità di cuore e di poeta.
Nel suo sentire travalica l'irretimento personale per rispolverare la coscienza collettiva di fatti ed eventi familiari e sociali, che rimangono come testimonianza di un'epoca quasi scomparsa. Il sentimento, il comune sentire, che unisce il poeta ai suoi paesani, nel cui profondo essere è radicato, dovunque egli si trovi, lo pressa a ricercare le radici della propria esistenza, che vive con nostalgia inconscia, quasi con amarezza e rimpianto. Sono gli orfani della paesanità che vanno alla ricerca della propria vera mamma naturale, e a lei, se non sempre col corpo, almeno con la mente e il cuore, vogliono ritornare, a questo grembo di mamma, mitica caverna in cui spesso si rifugia il poeta nelle sue tormentate poesie, che sembrano missive, cariche di amore ancestrale. La sua mamma Teresa, l'altra mamma, Bivongi, il suo paese, costantemente impresso nel cuore e nella mente d'ogni bivongese, e infine la Mamma di tutti, la Mamma Nostra.
A me è toccato dare il titolo a questa raccolta, non avendolo fatto l'Autore.
Ho pensato a Radici, lo stesso titolo del romanzo sulla schiavitù in America; Macari, il quasi mitico monte delle beatitudini del Poeta, come la Tara di Rossella O Hara, che non torna più come quella d'un tempo, come rimane nel sogno. Oppure Mondo di ruote, una delle più belle poesie di questa raccolta; il tempo che tutti, travolgendo, mena all'ultima méta. Mondo di ruote.
Ho preferito infine Vecchia madia, perché meglio rispondente alla mente del Poeta, all'atmosfera di queste poesie che hanno "il profumo di casa mia", la fragranza penetrante e avvolgente del pane appena sfornato, che penetra nei vicoli del vicinato e rende l'ambiente soffuso di ottimistica dolcezza.
Questa poesia richiama alla mente dei paesani, i pochi rimasti, i tempi di sudore e di stenti, costretti, e sono tanti, tanti di questo "paese", ad andare lontano, ad emigrare. Emigrare! Un termine carico di sentimenti contrastanti, di disperazione e di speranza, espresso nella commovente poesia Bigungisu da leggere col cuore e la mente d'un emigrante: "Vai, Bigungisu, vai ... - E duva puosi u piedi- ti fai onuri- ca si fìgghiu do suduri".
Intorno alla madia si stringeva la famiglia. Dalla madia nasceva forza e speranza o disperazione, quando questa rimaneva addossata alla parete come una mamma, che angosciata, volta le spalle, per non guardare in faccia i suoi figli che le chiedono almeno un tozzo di pane.
"O dura terra, perché non t'apristi!" - impreca il Poeta: questa dura terra, bella, ma amara ed arida, del nostro territorio che solo innaffiato dal sudore dei nostri paesani ha dato frutti insperati. Questa terra, che oggi, ri-inselvatichita dalla ruota del tempo, sarebbe ritornata già "Caccia e foresta", se non fosse per il ripetersi degli incendi, i quali, come un rasoio, fanno a ripetizione la barba alle nostre colline. Ma questa terra nella sua asprezza ha prodotto i frutti più buoni c più belli, i cittadini di Bivongi, che, sul posto o sparsi nel mondo, sono diventati alberi tenaci e fecondi.
Vecchia madia! A noi, figli del benessere e del mondo del consumismo, ricorda quando eravamo "piru". "Ti canusciu piru"- diceva quel Tizio al crocefisso fatto di legno di pero; che miracoli puoi fare, sei solo un pezzo di legno di pero! Quel pezzo di legno eppure i miracoli li ha fatti e li fa continuamente nel cuore di ogni credente, alimentando la speranza, infondendo nei cuori quella forza che si trasforma in tenacia. Il pezzo di legno secco, arido, nell'immagine del crocefisso, assume il potere del riscatto e della trasfigurazione. Questo è il miracolo di questa terra amara: i Bivongesi nel mondo con le loro molteplici preziose e prestigiose attività. Figli oggi del benessere, come l'ebreo nella Terra Promessa, nella liturgia della Vecchia madia rievocano il tempo della schiavitù, del cibo fatto solo di pane e cipolla, e diventeranno fecondi strumenti di generosità.
La vecchia madia sa pure di pasta lievitata, fermentata. Un pugno di lievito, con i suoi microrganismi, rende la massa eli buona farina più leggera e la espande. Così gli uomini con i propri vitali fermenti, in condizioni ambientali più favorevoli, crescono e producono vita.
La vecchia madia è come un crocefisso: non va messa in soffitta e neppure in un museo. Va collocata al centro della casa, nel cuore d'ogni bivongese. Se ne potrebbe fare addirittura un simbolo; riprodurla in tante minuscole madie di legno da portare con se com'eulogie, insieme ai sapori e agli affetti della propria casa. Trasformarla così in simbolo dell'imperitura civiltà calabrese, e In particolare bivongese, connotata dalla carica affettiva del nostro popolo, dal valore che nonostante tutto, conferisce alla famiglia, dalla laboriosità e dalla tenacia nel 'duro lavoro per procurarsi un pezzo di pane. Il mondo d'oggi ha bisogno di riscoprire quei valori simboleggiati dalla vecchia madia.
" .. . puru i cuosi -
hannu vuci e sentimienti, -
spìaci quandu nui i guardamu -
eu du cuori e eu da mienti" (da: U tilaru).
La madia ci parla ancora di calore, specie quello del sole sotto i cuoi raggi la terra fa germogliare il grano, lo fa crescere e maturare nella rigogliosa sua spiga. Il sole bruciante della nostra Calabria che ti porti dietro nei serbatoi delle tue vene dovun4ue tu vai. Il sole che fortifica le ossa e ti prova come l'oro nel fuoco . Il sole che, innervandoti, t'irrobustisce, rendendoti capace di diventare fecondo. Questo sole nel cielo terso di Calabria, sfavillante di luci nelle acque del mare lungo i suoi infiniti litorali, rimane pietrificato nell'animo di chi sta lontano. Questo sole che mentre dissecca le vene dei numerosi torrenti potrebbe diventare il fertile nostro petrolio.
"Si non c 'è suli ntisichiscia a spica
non ndùcianu sull'arburu mai i fica,
si a terra senta friddu e non caluri
all'arburo non spuntanu mai i fiuri" (da: Mangiuni).
E la madia richiama anche il calore del fuoco, elemento anch'esso carico di simbolismo, il fuoco del forno, dove la pasta fermentata riceve il suo sigillo e la sua consacrazione: diventa pane, buono da mangiare. Ci vuole la prova del fuoco per essere cotto, per maturare, per essere alimento e produrre bene-essere.
II Bivongese è un pane ben cotto nel forno a legna, caldo e profumato, che te lo rende simpatico, che t'invita a mangiarlo con gusto, che produce energia e progresso.
Infine la madia è simbolo del simbolo più bello ch'esista sulla faccia della terra, quello di una madre che porta la creatura in grembo. Ciò che in lei fermenta è opera di un altro Fattore. A lei il compito di accogliere la farina, impastata con mani amorose, che prende forma e fermenta. che sfornato diventa pane vitale e profumato. A nessuno è dato arrestare quel processo, vanificare l'opera di ottenere un buon pane. La buona massaia, grata e riconoscente, eleva gli occhi al cielo e su quella forma, come in un rito consacratorio, incide col dito una croce, come quel dito di Dio nella Cappella Sistina, che nell'atto di creare il primo uomo, gli infonde il suo spirito.
La madia della poesia del Nostro rievoca ambienti, costumi, attività, personaggi tipici, avvenimenti di tempi passati, potremmo dire, d'una civiltà e cultura, che se non scomparse, sono almeno profondamente alterate. L'A. ne ha una profonda nostalgia, nonostante la consapevolezza dell'ineluttabilità del progresso, anzi della sua necessità, specie per il benessere dell'uomo. La nostalgia della madia non è quella della poesia Don Mico Valenti, che tradisce pensieri d'ancien regime, di condizioni miserevoli della massa, per fruire profitto, dominio e schiavistico servizio. La sua è la nostalgia della vita serena in braccia alla mamma, dei silenzi sconquassati dal mondo di ruote, del rapporto cordiale del "benvenuto paesano" che ti saluta e ti tende la mano, dei sapori dell'antica cuci11:1 di "casa mia", della festa di Mamma Nostra. Una nostalgia venata di profonda tristezza, quando questa l'assale nella solitudine della rumorosa città, che congiunge i gradini giganti dei primi suoi passi a quelli del Vecchio maestro che s'avvia pian piano - nei sassi incespicando, - verso i cipressi cupi - che adombrano le croci- del vecchio cimitero. L'alfa e l'omega, il principio e la fine. Una fine nostalgica, ma non disperata. Perché .. .in quel petto- non c'era più un'ombra - c'era solo un bagliore di cielo.
Nella Vecchia madia v'è l'ombra della sua mamma, che le appare come in un'Ade di sogno: Or fa mamma da tempo è partita - e tu, madia, sei andata con lei … - L'hai seguita nel crudo destino - fra rottami di povere cose. La mamma lo segue nei pensieri per le vie di una grande e mai conosciuta città, lei che estrenea a queste strade- e a queste mura, - a queste immense cupole di Roma, mentre lui corre per inseguire la sua ombra con passo che si fa - sempre più affannoso, - alla sua meta, - all'ultimo riposo. Egli si sente un bimbo, aggrappato alla mamma- che si porta, con pascoliana immagine, dentro il petto, il gran cuore fanciullo - che tuttora va in cerca di mamma- tra l'odore fragrante di pane.
La sua mamma è diventata il tipo, l'immagine, la figura di un'altra Mamma, che ricorre spesso nei suoi pensieri profondamente intrisi di intimistico sentimento religioso, che traspare da molte delle sue poesie: E una preghiera – depongo ai tuoi piedi, - Mamma Nostra, - ravvofta nel saio celeste. Lo senti questo sentimento palpitante nella poesia Mamma Nostra, specie quando ci dice: ... e Ti sientu, Mamma, - ammia vicina- chi m'accarizzi- e mi cumpùorti ... - Ca senza mamma, nterra, - simu muorti .... E il Nostro lo vediamo, anche lui , nella figura dell'emigrante Mastru Micu, che in Argentina ... morìa - luntanu do pajisi, che voleva sentire l'urtima sonata delle campane della sua chiesa di Bivongi e stare in compagnia della Mamma Nostra: … Na mamma, nui, - diritti o stuarti, - a volimu puru ccà, - pe da vita e pe da muorti ... - Na mamma bella e bona - cuomu a Ttia, - Mamma Santa - Viergini Maria!
Questa pubblicazione postuma vuole essere anzitutto una manifestazione d'alletto imperituro, un segno di riconoscenza per i suoi insegnamenti che hanno avuto una profonda incidenza nella mia vita, ma anche un riconoscimento delle sue qualità, umane ed artistiche, forgiate all'etica del dovere, spiccata qualità ereditata dalla famiglia. I tanti paesani sparsi in ogni dove, che avranno l'opportunità di leggere queste pagine, potranno trovarvi i luoghi della loro fanciullezza o le radici dei loro antenati, e riscoprire quei valori umani, sociali e religiosi che, retaggio del passato, possano trasmettere alle nuove generazioni.
I suoi figli , i miei cugini, con i quali ho conservato un intenso rapporto affettuoso, hanno accolto con gioia questa occasione loro offerta di rendere omaggio alla figura del loro genitore, non soltanto incoraggiandomi nel mio intento, ma sostenendo gli oneri della pubblicazione. Io ho preso l'iniziativa, loro l'hanno portata a compimento. Un ringraziamento alla figlia, Mirella Bova Morace, per la rilettura attenta del testo, per i suggerimenti e le correzioni apportate.
Chiudo con l'auspicio di poter un giorno dar corso alla pubblicazione integrale di tutte le sue poesie, che conservo non solo come patrimonio di famiglia, ma del nostro Paese, di cui è utile e sacrosanto conservarne la memoria.
P. Damiano Bova o.p.
Vecchia Madia
di Francesco Bova (a cura di P. Damiano Bova OP)
Cenni biografici di Damiano Bova
Francesco Bova è nato a Bivongi (RC) il 7 marzo 1916 da Vincenzo e Teresa Zurzolo. Ultimo di 10 figli, di cui solo 6 vissuti in età adulta, gli fu dato il nome dello zio paterno, Francesco, sacerdote grecista e e latinista, professore nel seminario della diocesi di Squillace (CZ) al cui territorio apparteneva il suo paese natale. Col nome, dallo zio, ereditò anche la vena poetica.
Il padre, apprezzato ebanista, era nel paese un personaggio dalle eccellenti doti umane ed artistiche. Fra le sue molteplici ed impegnative attività, esercitava anche quella scultorea e pittorica. A Bivongi ha lasciato in eredità parecchie opere che sono patrimonio della chiesa locale e di privati.
Francesco fu avviato agli studi, come gli altri due fratelli maggiori. Conseguì l'abilitazione magistrale per l'insegnamento nelle scuole elementari, attività alla quale si dedicò con passione, prima a Bivongi, ed in seguito a Reggio Calabria e a Roma, da dove rientrò definitivamente a Reggio Calabria.
Fin da giovane dimostrò un'ampia apertura di mente e un'accentuata sensibilità di cuore, per le innovazioni che con difficoltà filtravano nella vita di un piccolo centro urbano della Calabria. Da una parte era legato al piccolo mondo agricolo paesano e a quello familiare, di cui diventerà un nostalgico cantore nell'età adulta, dall'altra introduceva nella sua vita, nella famiglia e nella scuola tutte le novità del mondo contemporaneo. Era dotato di una visione universale della realtà. Spirito aperto, afferrava subito il nuovo che la mente umana forgiava, filtrando lo opportunamente nel setaccio della tradizione, col rispetto che si deve alla saggezza antica.
Allo scoppio del secondo conflitto mondiale prestò il suo servizio militare come sottotenente in aviazione. Fu poi esonerato dal servizio per un incidente alla mano. La provvidenza, forse, gli risparmiò questa esperienza. Non riuscirei d vederlo nelle vesti eli ufficiale che comanda di sganciare bombe o aprire il fuoco su degli esseri umani. Ritornò all'insegnamento. La sua vera battaglia la combatterà nella scuola, dedicandosi a tempo pieno a questa che, per lui, era considerata una missione. In questo campo si distinse ovunque per le sue quali la umane, le alte capacità didattiche, l'attaccamento al dovere e le svariate iniziative parascolastiche, specie nella preparazione di lavori teatrali con i ragazzi del la scuola. Fu uno dei primi nell'adottare il metodo globale della Montessori.
La sua straordinaria carica affettiva lo rendeva amabile ai colleghi, ai superiori e, soprattutto, agli alunni, nonostante che li trattasse con una certa severità.
Sposò una collega, Anna Petraroli, nata in Puglia ma naturalizzata reggina, la quale, aveva avuto l'incarico d'insegnante a Bivongi alla fine degli anni 30. E' stata una coppia ideale, d'invidiabile intesa. La moglie, anch'essa dotata d'eccellenti doti didattiche nell'attività d'insegnamento, non rimpianse mai la città d'origine, e si acclimatò molto bene nella vita paesana, integrandosi con la famiglia del marito in uno stretto rapporto d'affetto.
Hanno avuto quattro figli, educati e formati con affettuosa attenzione, e nello stesso tempo con equilibrato rigore. Oggi sono tutti valenti professionisti: Enzo, Mirella, Mario e Domenico. Ha dedicato molta cura anche ai nipoti, specialmente quelli più vicini, stabilendo con loro un affettuoso rapporto, quasi d'amicizia. Voleva che si distinguessero nel comportamento e nell'impegno scolastico. Nella scuola si mostrava con loro molto più severo ed esigente. Chi scrive ne sa qualcosa per episodi che lo hanno interessato personalmente.
Fin dalla giovanissima età coltivò la sua eccezionale vena poetica, stimolato anche dalla sua emotiva sensibilità, dagli affetti familiari e dal mondo che lo circondava e in cui era immerso, sia paesano sia scolastico, sempre attento alle vicende emergenti del suo tempo, a livello nazionale e internazionale.
Le sue prime giovanili poesie le andava a leggere alla sorella Maria e, in seguito, soprattutto alla prima nipote. Rosarina, sette anni appena più giovane di lui. Trovava in lei un'uditrice attenta, appassionata ed interessata, nonostante che avesse frequentato solo la terza elementare. li nonno materno che avviò agli studi i figli maschi, non fece studiare le tre figlie, perché- come lui diceva- le donne devono stare in casa. Influì , con questa sua mentalità e col suo carattere autoritario, anche sulla figlia Maria, precludendo alla di lei figlia Rosarina di accedere agli studi. 11 novello poeta nella nipote riversò l'ansia del sapere e alimentò in lei, ben dotata d'intelligenza, la passione per la lettura. Alla sua prodigiosa memoria si deve il recupero d'alcune poesie giovanili dello zio, che altrimenti sarebbero andate perse. Lo zio le leggeva, anzi le declamava, e lei le riteneva a memoria, decodificandole, come un computer, anche ad oltre 50 anni di distanza.
Alla scuola, la più grande passione della sua vita, dopo la famiglia, ha dedicato una raccolta di poesie, rimasta inedita, con il titolo Didattica gioiosa. Poetando insegnava agli alunni aritmetica, scienze umane, storia, geografia, ecc ... , proprio come aveva fatto il suo omonimo zio prete, con il suo Utile dulci, che aveva confezionato per gli alunni del seminario di Squillace.
Egli sapeva dar vita a tutte le cose inanimate, con pascoliana vivacità: Le Pianelle, Il telaio, Il braciere, Zoccoletti, Lo Stivale, ecc ... Nelle piccole cose vi soffiava l'alito vitale della sua mente creatrice, rendendole protagoniste in un mondo di adulti, aureolato di sentimento e di profonda carica emotiva ed affettiva. Quelle piccole cose gli richiamavano le persone care, le figure del paese, le tradizioni più antiche; e vi rimanevano scolpite, fissate, in quei versi, mentre la fiumana del tempo e del progresso le veniva man mano travolgendo e seppellendo sotto la spessa coltre dell'oblio. Persone e cose ricevono dalla sua ispirazione poetica una comunanza d'anelito vitale che diventa storia.
Parte della sua produzione, una buona parte, è stata già da lui stesso pubblicata: Recitano i bambini (Fiabe, operette e commediole); l casi della vita (Novelle), Attimi poetici di un maestro (due edizioni in pochi mesi), in cui troviamo alcune poesie di Didattica gioiosa (per i suoi alunni della scuola elementare); Canto d'amore (dedicato alla sua prima moglie). Aveva previsto di pubblicare altre raccolte: Didattica gioiosa; lo credo; La campana suona suona . Non ne ebbe il tempo.
Perse, ancora molto giovane, l'adorata moglie Anna: una vicenda molto dolorosa e sofferta. Sposò in seconde nozze Franca Surace, pure lei di Reggio Cal. Gli fu compagna affettuosissima e discreta, amata e stimata dai suoi figli. Molto premurosa, lo ha assecondato nei suoi interessi e nei grandi amori: la famiglia, la scuola e la poesia. A lei ha dedicato una raccolta di poesie intitolata Nuovo canto d'amore. Franca ha trovato nella famiglia di lui la sua famiglia e si è fatta amare da tutti i figli e dai parenti del marito.
Molte le occupazioni che lo hanno assillato, particolarmente quella della costruzione ... perennemente . .. di una nuova casa, con la costante preoccupazione, piuttosto ansia, di offrire ai suoi figli un ambiente più adatto allo studio e al progresso: ristrutturazione della casa paterna nel paese, una nuova casa a Bivongi, e poi a Reggio Calabria, una prima e una seconda, per comprarne infine un'altra a Roma. Ma non gli bastava. La sua aspirazione era d'avere. come un patriarca, tutti i suoi figli uniti , con le loro famiglie, almeno una volta l'anno, durante le vacanze estive. Per loro costruì un complesso di quattro appartamenti a Condofuri, in provincia di Reggio Calabria. Aveva appena compiuto quest’ultima impresa che la sua fibra cedette.
Si spense improvvisamente il 20 agosto del 1984, all'età di 68 anni, pieno ancora di vitalità e portatore di comunicativo entusiasmo. Profondamente e nostalgicamente ancorato al suo mondo d'origine, che sempre si portava come uno scrigno ripieno d'oggetti preziosi, sapeva conciliare l'amore del passato con lo slancio verso i l futuro costellato di tante speranze.
Ne hanno memoria viva ancora, oltre, naturalmente, ai familiari, i parenti tutti, gli amici e i colleghi.
Un Direttore didattico ha lasciato di lui questa testimonianza che rispecchia molto bene la sua figura di maestro e di poeta: le sue pubblicazioni – egli afferma - mi hanno dato la conferma della sua eccezionale tempra di educatore, dotalo di ricchezza, di spiritualità e di innato senso artistico, per cui riesce ad imprimere al quotidiano lavoro scolastico, quella particolare nota che lo trasforma in attività gioiosa di delicata poesia.
P. Damiano Bova o.p.
Vecchia Madia
di Francesco Bova (a cura di P. Damiano Bova OP)
Prefazione dell'Autore Francesco Bova
Che cosa mi spinge ad aprire questo colloquio con cose, fatti, gente del mio paese? E qualcosa del luogo dove sono nato che, dovunque vado, porto inseparabilmente con me.
Ci sono dei giorni in cui nell'anima sento bruciare più che mai questo qualcosa che mi inebria di ricordi, che mi fa ritornare indietro, a ritroso nel tempo, sino all'estremo orizzonte dei miei primissimi anni.
Mi piace aprire questo colloquio con le parole del mio primo linguaggio in cui ravviso meglio me stesso e le cose e le persone che il tempo non ha sbiadito e stemperato.
Ogni parola del mio dialetto è carezza di mamma, è volto d'amico, tepore di casa, di chiesa, aroma di campi, in cui è rimasta impigliata per sempre la mia infanzia, che ritrovo intatta in questi miei fugaci ritorni al passato.
Provo, parlando questo mio dialetto, una sensazione dolce, distensiva, rinfrescante, come se mi immergessi nei "gurnali", limpidissimi bacini di acqua, che lo Stilaro, come se qua e là volesse riposare, forma a guisa di grandi specchi n cui si riflettono gli argini pietrosi c selvaggi del burrone che degrada, con qualche lieve sbalzo, dalle verdi montagne di Serra San Bruno.
Sulle rive sabbiose di questa fiumara che lambisce, e a volte aggredisce, le case del nostro paese, serenamente, come fanciulli, fermiamoci un poco, amici, a parlare tra noi ...
Francesco Bova
Vecchia Madia
di Francesco Bova (a cura di P. Damiano Bova OP)
Prefazione
PARTE PRIMA - POESIE DIALETTALI
Sentimientu
A bbesperata
Mi para stu paijsi
A viti
U siricu
U troppitu vecchiu
U troppitaru
U fun erali
Corpus Domini
Maruzzeda Micelotta
Mamma Nostra
Mastr'Angialiadu
Frappitìttu
Littara ad i Monastaracciuòti
A serenata
A bursetta
A littara e Micu u pacciu
L'urtumu pana
U rizzulu eda lumera
Filu d'erba
Quandu Betta filava
Sbarijandu
U faru lucia
Trivulu e mamma
A minestra da mamma
Lamientu e carnalavari
U brascieri
U tilaru
Catnpulisa
I sparraduri (l malalingua)
U candilieri
Mangiuni
A cavigghia
U piedi malatu
Mani gloriusi e Dio
Chi da matina
U paijsi
Bigungisu
Nu pugnu
Bigungi e Pazzanu
L'autra Madonna
U miagghiu bena
A guardia Cuomitu
Patruna
Rivigghiala sta mamma
U ciucciu
PARTE SECONDA- POESIE IN LINGUA ITALIANA
A settembre tornerò
Mondo di ruote
L'impronta è rimasta
li più buono
Credo
Tramonto
Un sorso d'acqua
La piazzetta
La tua ombra
Benvenuto paesano
Bagliori di fanciullezza
Le due fiumare
Il cuore del paese
Fonte di Mangiatorella
Don Pietro Zaffino.
Don Pietrino Valente
Don Mico Valente
Il maestro Lombardo
Il vecchio portalettere
L'assiolo
Il mio paese
Vecchia madia
Sguardi al passato
Verde prato
Il boscaiolo
Tugurio.
Le nostre orme
Ad un uomo libero
Sei cielo
li bene vero
Mamma Nostra passava
Il vecchio maestro
APPENDICE - POESIE VARIE
La pasta di casa
Quel giorno di agosto
Nostalgia di Patria
Le due maestri ne
Fate silenzio
Amiamoci